Sono venuto al mondo per stupirmi
Porto con me questa frase di W. Goethe, letta chissà dove, da quando ero giovane.
E lo stupore mi accompagna ogni qual volta la mia mano apre il portale centrale, non molto ampio ma solenne, di ingresso all’Abbazia di San Donato.
Mi ritrovo nel nartece che, quasi mille anni fa, altro non era se non un portico aperto verso l’esterno della chiesa; mi dirigo verso destra e, indegno, sono testimone oculare di un ciclo di affreschi cinquecenteschi dedicati a Santa Caterina di Alessandria.
Testimone indegno in quel luogo perché l’ammirazione per la bellezza dell’opera e per l’intelligenza del suo autore distraggono la mente dall’idea religiosa e prendono il posto della devozione.
Colgo con lo sguardo l’eredità lasciata ai Sestesi da Cesare da Sesto, sempre alla ricerca di qualche particolare che mi sia sfuggito nelle precedenti visite o, forse, per continuare questo assurdo dialogo asincrono con il giovane pittore.
Sosto per un tempo indefinito, immerso nella contemplazione, come se il pensiero dovesse fare da anticamera e lo spirito umanista prepararsi alla visione dell’altro capolavoro.
Risalgo la navata di sinistra, fino quasi all’altezza della cripta e volgendomi a nord ammiro, ogni volta stupefatto, l’altro affresco, ancora oggi senza paternità: la Madonna dei Limoni.
Meraviglia!
Cesare da Sesto La Disputa di Santa Caterina con i filosofi
Abbazia di San Donato
Locanda Presualdo, coda dell’inverno 1503
Un’atmosfera resa irrespirabile dal fumo di un camino che da decenni continua a vomitare fiamme quasi fosse la bocca di un drago; pareti e soffitto che la fuliggine ha reso neri e indistinti; ma pur sempre l’unica locanda nelle vicinanze del guado sul Ticino
Ad un angolo della stessa, sopra un tavolaccio un plico di documenti, due boccali di vino e due uomini seduti uno di fronte all’altro (altri sono in attesa): uno adulto, l’altro giovane; uno ben vestito, professionale, che ascolta, l’altro una persona semplice che sta parlando e gesticolando.
Quindi il Duca mi chiede di prestare servizio militare!
E dov’è il problema? Chiede il notaio
Il problema è che io sono nato qui, in Presualdo e quindi sono stato registrato a Castelletto.
Certo, Presualdo è una piccola enclave di amministrazione ecclesiastica novarese in territorio milanese.
Appunto, e come tale sono cittadino dei Savoia e ho già prestato il servizio militare con il Reggimento del Re! Ora i milanesi non possono pretendere che presti servizio un’altra volta per il Duca.
Va bene, ne prendo atto. Mi porti qualche documento che lo attesti e io studierò la questione e seguirò la sua pratica.
Una folata di vento gelido dischiude la porta di ingresso e si incunea tra tavoli e avventori; prima che la porta si richiuda fanno però ingresso alcuni soldati francesi e un gruppo di barcaioli e per ultimo un altro giovane uomo, dal volto fiero e sicuro di sè, infreddolito, avvolto nel suo mantello.
Si guarda attorno e, stupito nel riconoscere il notaio, che nel frattempo aveva congedato il suo interlocutore, si avvia verso di lui.
Buonasera messer Giacomo.
Perdiana: Cesare! Quanto tempo che non ci si rivede! Sei già passato da casa?
No, padre, arrivo ora da Milano. Una lunga cavalcata. Estenuante.
Siediti e scaldati con un bicchiere. Sono contento di rivederti in salute.
Cosa ti riporta a Sesto, dopo tutti questi anni?
Sono tempi difficili a Milano.
La città si era preparata al peggio già al tempo della venuta di Carlo VIII, ma si confidava ancora nelle capacità politiche relazionali del Moro e fu scampato pericolo.
Ma quando Luigi XII, quattro anni fa, è rientrato in Italia, non c’è stata più storia: Milano conquistata e Ludovico in fuga.
Il Maestro Leonardo è partito subito dopo e con lui qualche allievo: si dice che sia andato a Mantova e subito dopo a Venezia.
Ha però portato a termine un capolavoro: un’Ultima Cena nel refettorio di S. Maria delle Grazie.
Dovrebbe vederla messer Giacomo: non si era mai vista un’opera simile qui al nord.
Comunque la bottega è stata chiusa e molti di noi, pur di non partire, hanno accettato committenze da privati.
Io sono stato contattato dai monaci che in questo caso hanno fatto da intermediari per dipingere un affresco qui, nel monastero di San Donato.
Ho accettato e... eccomi qui.
Padre e figlio, ritrovati, escono dalla locanda e si dirigono verso casa.
Monastero benedettino di San Donato in Sesto Calende
Fondato nel corso del IX secolo da Liutardo dei Conti, vescovo di Pavia, il monastero è la prima testimonianza di una presenza reale della fede cristiana nei territori del lago Maggiore; la località Scozòla di Sesto Calende era il luogo dove sorse l’Abbazia.
Il Vescovo usò la parola e la spada per “cristianizzare” gli Eruli discendenti di Odoacre e i Longobardi, gente dedita al paganesimo e all’arianesimo.
Liutardo aveva ceduto ai monaci terreni, peschiere nel Ticino e riconosciuto loro diritti: distretto, giurisdizione, diritto di alloggio dei luoghi e castellana.
L’Abbazia rappresentava quindi un’enclave della diocesi di Pavia all’interno della diocesi Ambrosiana: ciò che fu causa per mille anni di continue rivendicazioni territoriali da parte delle due diocesi.
Cesare, anche Sesto non è più quella che hai lasciato dieci anni fa. Guarda quei soldatacci: sembrano rispettosi, ma i loro colleghi di qualche anno fa, soldati di Carlo VIII, durante l’occupazione del Novarese facevano frequenti incursioni nel nostro territorio, scendevano al Porto, da lì invadevano la campagna e commettevano ruberie ed estorsioni alla povera gente e persino ai monaci.
Sesto porto di gente, porto di confine: abbiamo goduto vantaggi ma abbiamo anche pagato un caro prezzo per la nostra posizione.
E anche i monaci non sono più quelli che hai conosciuto: ricordi l’abate Tatti? È morto ormai da otto anni. Sono rimasti in cinque, più assorbiti nella gestione dei loro beni che attenti alla spiritualità dell’anima.
Per non parlare dei Visconti: solo angherie abbiamo ricevuto dal loro potere.
E tutti uguali, già tuo nonno mi parlava del Lancillotto e di suo figlio; a metà del secolo scorso venne addirittura richiamato con lettera scritta dal Duca, allora Francesco Sforza, perché suo figlio restituisse il maltolto alla moglie del Della Porta. La signora veniva spesso a trovare la mamma, dovresti ricordarlo anche perché fu lei a convincerla a lasciarti partire per Milano, una volta manifestate le tue precoci capacità nel disegno. Qui non avresti potuto nè studiare, nè approfondire la tua conoscenza.
Mi spiace che l’abate sia morto; era un brav’uomo il Tatti, intelligente e capace; quando sono partito per Milano, furono i monaci a darmi una lettera di presentazione per alcuni loro conoscenti, persone influenti della città.
Chi si occupa oggi delle anime dei Sestesi?
Beh, dall’anno di fondazione della chiesa di San Bernardino, cioè dal 1456, questa chiesa, più centrale e soprattutto prossima al Porto si è via via proposta come guida spirituale dei Sestesi.
Non a caso ti abbiamo battezzato lì.
E per chiuderla con i Visconti, aggiungo che nonostante conoscessero le condizioni misere di uomini e luoghi, causa le continue scorrerie dei loro nemici, nonostante vedessero con i propri occhi le case rovinate, i tetti di paglia, pretendevano, e lo fanno tuttora, di imporre nuovi balzelli, come obbligare i contadini, se non sono in grado di pagare le tasse con i loro prodotti, a prestare gratuitamente la loro manodopera, anche lontano da Sesto.
I Consoli si lamentano per queste pretese, adducendo anche il fatto che da troppo tempo dobbiamo mantenere le truppe, e non parlo solo dei Francesi, ma anche degli Svizzeri e gli Imperiali, che a vario titolo, sono qui ospitati.
Il Comune infatti è libero nei propri Atti: ho ribadito per l’ennesima volta che il Podestà ducale non può imporre nulla al Comune e quando ciò dovesse accadere nuovamente solleciterò di nuovo i Consoli a rivolgersi al Duca.
Per la cronaca: l’Imperatore Massimiliano, un paio di anni fa a Linz, ha confermato ai Visconti il feudo di Castelletto e di Sesto.
Bene, va Cesare, saluta tua madre e i tuoi fratelli.
Cosa intendi fare domani?
Andrò sicuramente all’Abbazia per incontrare un delegato della Confraternita di Santa Caterina e definire meglio il contratto per la mia opera.
A domani padre.
Confraternita di Santa Caterina del Monte Sinai
Vi sono notizie storiche che attestano come la Confraternita fosse già attiva dopo la fine della I crociata; dall’Oriente si venne a conoscenza del martirio di Santa Caterina di Alessandria e di come il suo corpo esamine fosse stato trasportato dagli angeli sul monte Sinai.
La Confraternita, canonicamente e giuridicamente riconosciuta, aveva sedi in diverse città d’Italia.
La vicinanza dell’eremo di Santa Caterina del Sasso, che nel corso del Cinquecento viveva un grande periodo di prosperità, può aver indotto numerose famiglie locali a costituirsi in Confraternita, tenendo le proprie riunioni nell’Abbazia.
Buongiorno fra Gaudenzio, sono Cesare...
Cesare! Non credo ai miei occhi! Sei proprio tu; come sarebbe stato felice l’abate Tatti nel rivederti; avevi solo 15 anni quando te ne sei andato da Sesto, ma aveva già intuito che la vita ti avrebbe fatto doni speciali. E tu alla vita. Cosa ci racconti della città? Ti sei sentito smarrito a Milano?
Beh, gli inizi non sono stati facili; per la prima volta vedevo tutta quella gente che mi induceva a pensare che nessuno fosse davvero a casa propria, ma che fossero tutti ospiti, un poco come me. Si, i primi tempi ero euforico e preoccupato nello stesso tempo. Per fortuna che con la vostra lettera di raccomandazione ho iniziato a lavorare subito nella bottega di maestro Leonardo e da allora sono divenuto piuttosto abile nell’uso di pennelli e colori.
Ora sono in attesa di qualcuno della Confraternita per concordare un’opera che dovrà riproporre il ciclo della Santa.
In verità non mi ricordo di una loro cappella nell’Abbazia.
Non puoi ricordarlo perché quando te ne sei andato da Sesto, la cappella non... c’era.
Alcuni documenti relativi a questo nartece, che ormai ha quasi quattrocento anni, sembrano attestare che fosse stato costruito attorno al 1130, e non è mai stato inglobato veramente nella chiesa; dovresti infatti ricordare la presenza di due aperture laterali nel nartece: una a nord e l’altra a sud, o se vuoi una a sinistra per chi entra in chiesa e l’altra a destra.
Otto anni fa, dopo la morte dell’abate Tatti, l’Abbazia è stata trasformata in commenda e oltre a noi monaci sono subentrati sacerdoti secolari. Anche i Confratelli di Santa Caterina sono entrati in San Donato, nella sua vita materiale e spirituale.
Un anno fa la Confraternita ci chiese di poter chiudere l’apertura di destra: si è creato questo spazio delimitato da due pareti perpendicolari fra loro, quella a est che accoglie l’altare e questa a sud che contempla la nicchia che sostituisce la porta laterale e qui si è ricavata la Cappella di Santa Caterina, cappella che oggi è subordinata alla loro gestione e tutela.
Ma ecco messer Besozzi: è con lui che dovrai parlare.
Cesare da Sesto? Il Magister? Bene, mi segua, andiamo alla Cappella.
Il ciclo di affreschi dovrebbe coprire la parete sud e questa a est per circa otto braccia ciascuna.
Abbiamo pensato di rappresentare a sud la Disputa della Santa con i filosofi, immaginandoli nella fase della loro conversione, alla presenza dell’Imperatore Massimino e su questa, ad est, sopra l’altare, la sua Apoteosi.
Che ne pensa?
Cesare non risponde.
Immerso in quell’aria chiusa, impregnata di quell’odore dolce, tipico della funzione religiosa, e di quello sgradevole delle candele di sego, il giovane pittore si guarda attorno, con sguardo investigativo e pensieroso.
Si avvicina alle pareti e ne constata con il palmo della mano lo stato di umidità delle stesse; siamo in inverno e lo stato di ciò che rappresenterà il supporto dell’affresco si trova in condizioni particolari.
Poi alza lo sguardo per verificare la copertura del nartece e il suo pessimo stato di conservazione, studia la parete ovest dello stesso, la presenza di altri affreschi, delle quattro colonne e dei loro rispettivi capitelli.
Torna infine sui suoi passi e si pone nuovamente di fronte all’altare e al suo fianco: nella sua mente già si animano le scene che avrebbe dipinte.
Ci sono due ordini di problemi che si devono affrontare, uno tecnico, l’altro più propriamente religioso e artistico.
Il “buon fresco” ha due nemici naturali: l’infiltrazione lenta e quella rapida; le condizioni del muro sono adesso sufficienti, ma con la bella stagione potrebbero peggiorare perché l’umidità verrà richiamata dal basso.
E nel tempo questo avverrà certamente, a meno che vogliate prevedere un rifacimento del pavimento della Cappella.
L’infiltrazione di acque meteoriche, che danneggerebbe irrimediabilmente l’opera in breve tempo, deve essere affrontata da subito: è necessario intervenire subito sul sottotetto del nartece.
I tempi ci sono: io dovrò predisporre i cartoni dei dipinti e inviare una persona fidata a Milano per l’acquisto di pennelli e colori.
Penso siano necessari tre mesi prima di mettermi all’opera.
Ma la questione più importante riguarda la scelta religiosa e artistica, meglio la consapevolezza di quanto si realizzerà.
Guardatevi attorno: al giorno d’oggi la bellezza di questa Abbazia è insensibile, il linguaggio che usava è dimenticato; quello che è scritto nelle sue colonne, nei loro capitelli, è meno guardato e mal compreso per elevare lo spirito del fedele.
Il nartece, lo sapete meglio di me, è il luogo di accoglienza e di introduzione alla vita cristiana: l’uomo si affida a Cristo che con la sua croce ha vinto il male e la morte.
Guardate questi capitelli, quanti oggi comprendono questo simbolismo carico di messaggi che parlavano al cristiano di quattrocento anni fa?
Il capitello del pilastro a sinistra dell’ingresso raffigura i serpenti intrecciati e il giglio a cinque o sette petali: il serpente esprime il sospetto contro Dio che il diavolo genera nel cuore dell’uomo, mentre il giglio richiama la vittoria di Maria sul male.
Si tratta quindi di un messaggio di speranza.
I capitelli delle colonne centrali presentano il motivo delle palme che richiamano l’ingresso di Gesù in Gerusalemme e l’ingresso del cristiano nella chiesa di Cristo, ma è anche il simbolo del martirio, cioè della piena vittoria sul male.
Infine il capitello di destra presenta delle teste umane superiormente e due leoni che si apprestano a divorare un uomo: chiaro riferimento alle persecuzioni dei primi cristiani e la salvezza operata da Cristo.
Capitelli dell'Abbazia di San Donato
Se vogliamo quindi richiamarci a questo linguaggio e al suo simbolismo dobbiamo esserne consapevoli e fare scelte opportune: le nostre pareti, i nostri affreschi, dovranno raccontare questa verità.
E lo dovranno fare tenendo conto delle novità portate nell’arte dal maestro Leonardo.
Si dovrà anche ripensare alla disposizione delle candele: la loro luce deve essere trasformata da qualcosa che si diffonde a qualcosa che indica e il nostro punto di fuga sarà la Santa.
Il fedele, fra Gaudenzio, non entrerà nell’Abbazia per trovare qualcosa, questo è scontato, vi entrerà per scoprire, per stupirsi ogni volta.
È pur vero che da cinquant’anni questa formidabile invenzione del Gutenberg ha facilitato la trasmissione della conoscenza, ma con la pittura il popolo impara la storia sacra con maggiore forza di immaginazione di quel che non facciamo noi con la lettura.
Fra Gaudenzio e messer Besozzi, rigorosamente muti, guardano quel giovane con incertezza, con meraviglia e con ammirazione; sono incapaci di comprendere come un ragazzo ventiseienne possa essere così carismatico, autorevole, come possa avere una conoscenza così profonda, usare un linguaggio competente e persuasivo.
Il ciclo di Santa Caterina di Alessandria: i moti dell’animo
Come anticipato dall’incontro, nel giorno in cui vengono conclusi i lavori di riassetto del sottotetto del nartece, Cesare si ripresenta al monastero di San Donato per avviare i lavori.
Il giovane pittore ha davanti a sè la parete sud e sta conversando con un paio di artigiani.
Ho deciso che procederò “a giornata”. Questo significa che voi dovrete stendere l’arriccio su tutta la superficie della pittura, usate una parte di calce grassa e due di sabbia del Tisino, mentre invece per il “tonachino” userete sabbia fine, polvere di marmo e calce in parti uguali e lo stenderete solo per la superficie che decorerò quel giorno.
A tarda mattinata entrano nell’Abbazia alcuni monaci e messer Besozzi.
Quanto mai curiosi nel rendersi conto della tecnica usata da Cesare e ansiosi di vedere i primi passi del maestro, si dirigono nel nartece proprio mentre il pittore, ritagliato parte del cartone, dopo aver proceduto ad eseguire tanti piccoli fori lungo tutto il disegno, lo adagia sul tonachino e, tramite polvere di carbonella, effettua lo spolvero. I contorni del disegno vengono quindi trasferiti sul muro.
Buongiorno a voi, sto tamponando la sagoma per ottenere le linee della composizione con maggiore accuratezza. Ho acquistato colori di origine minerale come il bianco di San Giovanni, calce spenta, ocre naturali, oltremare, nero d’avorio e ora procedo ad eseguire la parte destra della Disputa di Santa Caterina.
Cesare da Sesto La Disputa di Santa Caterina con i filosofi
Il gruppo assiste al miracolo: nel corso di poche ore sono tracciate le figure di quattro personaggi, più altri due volti. Ognuno è dotato del proprio cappuccio a sacco.
I filosofi si guardano tra loro.
L’ultimo filosofo, che chiude la composizione, ha una tunica verde e nella mano sinistra tiene un libro aperto. Un altro libro è nella mano destra del filosofo rappresentato con una tunica rossastra.
Discutono, evidentemente confrontandosi con le parole della Santa che si rifiuta di riconoscere alcun valore agli idoli pagani: il dubbio li pervade.
Nei giorni seguenti la composizione si completa; dapprima con la figura di Massimino, seduto sul trono, avvolto da una tunica bianca e da un mantello giallo ocra. È colto in una doppia e contrastante posizione: la mano destra con l’indice è rivolta verso i filosofi mentre la sua testa, ritratta di profilo, è rivolta verso la Santa. Ha uno sguardo quasi magnetizzato da quanto sta asserendo Caterina.
Infine ecco a sinistra rappresentata colei che sarà martire.
Ha capelli lunghi, ricci, colore marrone chiaro, porta sul capo un filo di perle; indossa una tunica bianca e sopra un mantello marrone rossiccio, ha la mano destra rivolta verso l’alto e questo gesto è rafforzato dall’indice puntato verso il Cielo.
Lo sguardo è rivolto verso l’Imperatore e i filosofi.
Tutta la scena avviene in una stanza illuminata dalla luce proveniente da due finestre, poste alle spalle dell’imperatore.
Spesso Cesare consulta un taccuino racchiuso da una copertina in cuoio.
È stato visto a volte tracciare dei disegni, quando la sua creatività lo portava a concentrarsi su uomini, donne o bambini che incontrava e che ispiravano qualcosa all’artista.
Non se ne separa mai, nessuno è in grado di dire cosa possa contenere.
Ma la curiosità dei monaci va oltre la loro discrezione.
Questo taccuino? E’ un dono di maestro Leonardo; lo ringrazierò sempre, non per il taccuino in sè, ma per il suo uso.
Ho trascorso mesi e mesi a fare esperienza, da apprendista, in bottega, macinando per giorni i pigmenti colorati, miscelandoli tra loro e immergendoli nell’olio. Un lavoro ripetitivo che speravo un giorno di mettere a frutto. Poi Leonardo si rivolse a tutti noi giovani e ci raccontò che la vera rivoluzione dell’arte consiste nell’indagine dell’espressione dei soggetti raffigurati e nella nostra capacità di rappresentarla.
Ci raccomandava di studiare dal vero, ricercando “la prontitudine dè suoi atti negli atti naturali fatti dagli uomini all’improvviso e nati da potente afezion dè loro affetti, per poi far brevi ricordi nè libretti”.
Quando incontro nel volto di un uomo la felicità, lo stupore, il dolore, la violenza, l’ira, la tenerezza, l’amore, io prego quell’uomo o quella donna di posare per me, per il breve tempo necessario a fissare sulle pagine il loro stato d’animo.
Questo taccuino deve essere sempre con me.
E al momento opportuno trasferisco queste emozioni nella mia pittura.
Spero di essere riuscito in questo compito dipingendo i volti di filosofi, dell’Imperatore e della Santa.
Cesare da Sesto, Studi di bimbi Pinacoteca di Brera
A quelle parole tutti i presenti guardano l’affresco e finalmente si rendono conto di ciò che prima osservavano solo con gli occhi.
E non comprendevano.
Mai hanno visto tanta espressività nelle figure (e un tentativo di introspezione psicologica n.d.r.); sembra loro di avvertire il vociare prodotto dai filosofi nella concitata discussione tra loro. Lo stesso Imperatore appare stizzito nel suo gesto scattante e nervoso, mentre l’unica a mantenere una calma olimpica è proprio la Santa.
Concitazione, stupore, il gesto dell’indice della Santa (San Tommaso?), tutta questa atmosfera richiama un’altra scena, probabile sua fonte: l’Ultima Cena leonardesca (Marco Carminati).
Nei giorni seguenti il maestro rivolge la sua opera sulla parete est, quella che riceve l’altare e quindi la parete più importante della Cappella, ed affronta il tema dell’Apoteosi di Santa Caterina.
Cesare da Sesto L'Apoteosi di Santa Caterina
Anche in questo caso i moti dell’animo dei devoti inginocchiati viene ben interpretato: i cinque personaggi vengono dipinti di profilo ma la scena è resa viva dalla scelta di Cesare di fare inclinare verso l’alto due volti, mente gli altri alzano solo gli occhi. Uno addirittura è raffigurato nell’atto di aprire leggermente la bocca, proprio a sottolineare il suo rapimento di fronte alla glorificazione della Santa.
Sopra di loro un angelo dal volto svagato e pensoso (Vergine delle rocce?) con tunica verde che regge un mantello rosso e blu.
A differenza della Disputa questo affresco si è conservato meglio: ci consente di apprezzare la plasticità delle figure, il brillante dosaggio delle cromie e dei chiaroscuri e l’eccezionale forza espressiva dei volti (Marco Carminati).
Cesare non ha però ancora terminato l’opera.
Gli viene chiesto di intervenire anche sul registro inferiore della Disputa, laddove la chiusura della porta laterale ha generato una nicchia.
Viene richiesto un affresco riferito ad una teoria dei Santi.
Il pittore dipinge tre figure.
A sinistra Santa Lucia, con la mano destra che regge i propri occhi e con la destra che stringe la foglia di palma, simbolo del martirio; al centro Sant’Antonio da Padova, con le vesti da canonico agostiniano, per sottolineare che fu teologo e predicatore e a destra San Defendente, ritratto con l’abito da legionario romano, martire nel IV secolo e protettore dai lupi (che allora creavano non pochi problemi agli abitanti di Sesto).
Questi santi sono tutti identificati da legende e rappresentati nella nicchia decorata in modo da riprodurre uno spazio con volta a botte, dipinta a cassettoni.
Cesare da Sesto San Ayolus e Santa Apollonia
Ai lati della nicchia, esternamente alla stessa, Cesare da Sesto dipinge a sinistra San Ayolus (San Maiolo?) e a destra Santa Apollonia con la palma e i denti del proprio martirio avvenuto nel III secolo.
Messer Besozzi e altri confratelli e i monaci, dopo avere preso visione del buon fresco, e consci del valore dello stesso, che per anni avrebbe dato lustro a San Donato, si rivolgono a Cesare e gli chiedono come mai non lo abbia firmato.
Sono giovane e ho ancora molto da conoscere, ma vivendo e formandomi in una grande e moderna città, qualcosa ho imparato e intuito: a volte penso che la verità non abbia più tanto valore nell’arte ed il pittore di un soggetto religioso non sia più considerato come il narratore di un fatto, ma come l’inventore di una idea.
I capolavori di Maestro Leonardo sono spesso guardati con ammirazione per la loro bellezza e non per il loro messaggio religioso.
Insomma l’autore, il suo nome, corre il rischio di essere piu importante del messaggio veicolato dalla sua opera.
Non firmerò nulla!
Però un segno l’ho lasciato, anche se voi tutti non ve ne siete accorti.
Osservate il libro aperto tenuto in mano dall’ultimo filosofo della Disputa.
Foto scattata attorno al 1920: particolare della Disputa
Tra Quattrocento e Cinquecento nei dintorni di Sesto
Terminati gli affreschi e congedatosi dalla Confraternita, Cesare, nei giorni successivi, accompagnato da fra Gaudenzio, s’inoltra nella campagna della Pieve.
La prima sosta, in verità poche centinaia di metri dalla loro partenza, è al Casale degli Zutti, in località Leuco o Locca.
Gli Zutti erano una famiglia benestante di Sesto, con alle spalle una genealogia risalente addirittura al XIV secolo.
Fra Gaudenzio introduce il maestro Cesare a Pietro Maria Zutti e lo invita a prendere visione del ciclo di affreschi appena terminato nella Cappella della Confraternita di Santa Caterina di Alessandria.
Lo Zutti, devoto di San Francesco, manifesta la sua volontà di voler costruire, vicino alle case “avite”, un oratorio dedicato al Santo e lascia intravvedere la possibilità di un coinvolgimento di Cesare nelle decorazioni.
(L’oratorio in effetti sarà realizzato, ma non da Pietro, bensì dai figli Girolamo e Francesco, nel corso del 1552)
Salutato lo Zutti, il vecchio monaco e il giovane pittore riprendono il cammino.
Vedi Cesare, pochi signori e tanta povera gente: la fame è quasi permanente, le truppe quando non trovano di che saccheggiare, sradicano viti e piante, incendiano i boschi, spezzano le croci e le immagini dei santi per le vie.
Queste terre a volte rimangono incolte e il Comune di Sesto non può fare altro che implorare il Senato di Milano, tramite il Magistrato, per avere gratuitamente della biada.
Eppure il porto del Tisino è sempre attivo e penso che fino a quando sarà aperta la Fabrica del Duomo, ci sarà sempre bisogno di merci e di barcaioli che scendano il fiume e il Naviglio Grande.
Già, ma quelle merci sono appunto ad Usum Fabricae, non pagano dazio. Il vantaggio è per i cavatori di marmo di Candoglia, anche se la cava appartiene alla stessa Fabrica: è stato Gian Galeazzo Visconti alla fine del Trecento a concedere l’utilizzo delle cave alla Veneranda.
A proposito, ho sentito voci che il tuo Maestro Leonardo si è interessato anche ai navigli.
Maestro Leonardo è un genio; se non ricordo male, Ludovico il Duca gli assegnò il compito di studiare un sistema che rendesse possibile la navigazione tra il lago di Como e Milano.
Ma anche tu Cesare sei destinato alla gloria...
Gloria terrena, intendi; a volte mi chiedo chi ne sia veramente degno di ammirazione: il pittore? Lo scultore? L'architetto delle cattedrali? O forse il navigatore? Mi è giunta voce che Pietro Martire d'Anghiera, come lo chiamano ora, anche se nato ad Arona, sta scrivendo una memoria che riguarda la scoperta del nuovo continente: il De orbe novo; forse che il Cristoforo Colombo non è degno di gloria imperitura? E che dire di fra Luca e della sua De divina proportione, arricchita dai magnifici disegni geometrici del mio Maestro? Un matematico può essere destinato alla gloria?
Ma, fra Gaudenzio, chi crede che le proprie opere siano destinate a durare, prende l’abitudine di situarle in una epoca nella quale egli stesso non sarà che polvere. E così, costringendolo a riflettere sul nulla, l’idea della gloria lo rattrista, perchè è inseparabile dall’idea della morte. Meglio non pensarci.
I due risalgono fino all’Oratorio di San Vincenzo, dove sostano in preghiera e dove la curiosità di Cesare viene attratta dagli affreschi presenti all’interno.
Nel primo pomeriggio sono di ritorno al monastero.
La ripartenza da Sesto
Nelle settimane successive vari personaggi si recano a visitare la Cappella e a prendere visione dello straordinario capolavoro eseguito da Cesare da Sesto.
Messer Giacomo, commosso, abbraccia il figlio che ha manifestato la volontà di ripartire per Milano.
Divenire uomini è un’arte Cesare, non perché tu dovrai sempre essere creativo, ma perché la tua ricerca dovrà essere continua.
Torna pure a Milano, incontro al tuo destino, lascia il tuo paese, ma non lasciare che il tuo paese ti lasci!
Padre non si può tornare indietro da quello che si sa, come non si può non ricordare quello che si è potuto e voluto vedere, anche se ci si cava gli occhi.
Montato a cavallo, Cesare esce dal paese.
Non è dato sapere se mai vi fece ritorno.
Pietro Magni, 1858 Monumento a Leonardo da Vinci in Piazza della Scala a Milano. Dettaglio: l'allievo di Leonardo, il pittore Cesare da Sesto. Foto di Giovanni dall'Orto
Epilogo
Nell’ultimo rigo del libro aperto, tenuto in mano dal filosofo della Disputa, era leggibile fino agli Venti del Novecento, una data: 1503!
Entrando oggi a San Donato non si ritroverà quanto descritto in narrazione.
Nel 1745 i deputati dell’Ospedale Maggiore, a cui era stata concessa l’Abbazia fin dal 1534, decretarono di abbattere la parete est per creare un continuum con la navata di destra.
Gran parte dell’Apoteosi andrà persa.
L’apertura che ne derivò venne rinforzata con una muratura di maggiore spessore che nascose quanto non era stato distrutto in precedenza.
Nel corso del 1820 l’Abbazia fu annessa alla diocesi di Milano, diventando parrocchia.
Solo nel 1959, durante lavori di restauro, tornò alla luce quanto oggi si offre ai nostri occhi.
Nel 1981 Mauro Natale propose per l’autore del ciclo il nome di Cesare da Sesto e nel 1989 Marco Carminati confermò, sulla base di una accreditata analisi stilistica, senza possibilità di equivoco, che il ciclo fosse stato concepito e realizzato all’interno di una situazione culturale ed artistica ben definita: quella della cultura milanese cinquecentesca che ruota attorno alla presenza carismatica di Leonardo.
Cesare da Sesto è finalmente tornato a casa.
Il primo dato certo riferito alla vita di Cesare da Sesto è datato 1508: si tratta di un documento romano che attesta un pagamento a suo nome, a fronte di alcuni dipinti eseguiti in Vaticano per papa Giulio II.
Dopo Roma lo ritroviamo nel sud d’Italia: Catania, Messina, Napoli, Cava dei Tirreni e ancora a Milano.
Morirà il 27 luglio 1523 a Milano.
Il funzionario dello Stato annoterà sul libro dei morti: Magister Cexar de Sesto ann. 46 ex artetica cum febre continua per menses duos, diaria epatica sanguinea maxima superveniente, non suspecta juditio mag.ri Gasparris Coyris.
Abbazia di San Donato Madonna dei limoni
Ps: nel corso dei restauri del 1959 venne alla luce un altro grandioso affresco, oggi conosciuto come La Madonna dei limoni.
Era collocato sulla parete meridionale della cappella a sinistra dell’Altare Maggiore, coperto da una parete di cotto.
L’affresco, realizzato tra il 1579 e il 1592, non ancora oggi attribuito, venne staccato dal muro, restaurato sotto il controllo della Soprintendenza di Milano e ricollocato sulla parete di destra della cappella.
L’autrice del restauro fu Pinin Brambilla Barcilon, allora trentacinquenne, celebre restauratrice, per vent’anni, dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci.
Bibliografia
Cesare da Sesto, 1994 Marco Carminati
Ricerche spettanti a Sesto Calende, 1880 A. G. Spinelli
Abbazia di San Donato, 2012 Michele Aramini
Considerazioni su Cesare da Sesto nel periodo romano, 1983 Annalisa Perissa Torrini
Le foto nell'Abbazia di San Donato sono di Miriam Vergani
Comments