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Immagine del redattoreClaudio Carabelli

Il bosco non è abbandonato



Se stai seduto sul tronco, se attivi solo sguardi, se ascolti il silenzio, che silenzio non è, se contempli attorno a te, se guardi verso l’alto, allora comprendi che no, non è il bosco ma è l’albero ad essere abbandonato.

Il bosco non esiste, è solo un’unità tassonomica come potrebbe esserlo il genere o la famiglia: l’albero invece è la specie linneana, è reale, è vivo.

Dal sottobosco variegato si elevano per decine di metri Pinus pinea, Castanea sativa, Quercus robur.

Non sono le sequoie delle foreste californiane, ma ugualmente sono dei giganti.

Alberi giganti le cui chiome sono lontane da noi; la vista ne salvaguarda la distanza: senza distanza nessuna mistica è possibile.

Il pino è testimonianza di eleganza; un cilindro che cresce “dritto come un fuso”, appena percepibile la decrescita radiale del tronco; man mano che l’apice si fa strada verso il cielo, sacrifica i suoi rami laterali: ne trae nuova energia per risalire e dopo decine di metri esplode orizzontalmente in una chioma frattale, descritta da migliaia di aghi; sembra di assistere ad una esplosione di fuochi d’artificio monocromatica, la cui forma si è cristallizzata nel tempo.

Questa eleganza minimale ha un prezzo: alla base di quel tronco nessuna altra forma di sottobosco ha diritto di cercare la vita.

A qualche metro di distanza il castagno ha fatto una scelta radicalmente diversa; ha esplorato la natura dando vita a forme simili ma sperimentando adattamenti diversi.

Il suo tronco principale lascia sopravvivere il proprio seme alla sua base ma, spesso già a pochi metri dal suolo, si duplica, separandosi in altri possenti tronchi da cui si sporgono in ogni dove rami laterali, ricoperti da foglie.

È un albero gigante amico della vita; i suoi abbondanti frutti autunnali hanno sfamato per millenni uomini e animali.

Oggi questi frutti sembrano non essere più così abbondanti.

Forse è un richiamo, un sussurro di attenzione per chi, pur camminando nel bosco, non sa guardare, non sa ascoltare il disagio dell’albero.

La gigantesca quercia non consente altra vita, oltre alla propria, nelle vicinanze della sua base.

Anche il suo tronco si suddivide in altre protuberanze, ma a differenza del castagno questo avviene solo dopo parecchi metri dal suolo. Foglie obovate la decorano, acheni sono i suoi doni.

È un albero longevo, forse da un millennio custode del nostro territorio.

Spinto da un bisogno aptico ci si avvicina alla corteccia: il semplice tocco è un atto

demistificatorio, ma il contatto genera nuova conoscenza.

Una sfaldatura deflagrata, diffusa, genera scaglie di grandi dimensioni che offrono un senso di leggerezza estrema. Ad una lieve pressione la scaglia si sfalda, rivelando di essere la somma di decine di sottili lamine e mettendo a nudo il legno rossastro: questo è la corteccia del pino.

Tutt’altra sensazione si percepisce appoggiando il palmo sul tronco del castagno.

Il tatto restituisce impressioni forti e massicce nonostante anche su questo tronco vi sia una corteccia con profonde screpolature latitudinali.

La corteccia della quercia si presenta con scaglie ad andamento sinuoso, ciascuna

di breve lunghezza, una intercapedine che lascia intuire quanto possente sia il

tronco.

Non c’è nulla di più tonificante che raggiungere il colle boschivo in solitudine,

sedersi in silenzio cercando quanto sussurrato dagli alberi.

Dobbiamo avere più coraggio, il coraggio di rinnovare una amicizia che nei secoli si

è persa.

Amicizia vitale, ben nota a Otzi, che 5 mila anni fa utilizzava il legno di tasso per

costruire il proprio arco, mentre le scarpe erano imbottite di fieno, la mantella

realizzata con erba intrecciata con lunghe e resistenti fibre di tiglio, le frecce in

legno di lantana e sanguinello, la corteccia della betulla per i contenitori, uno dei

quali conteneva carbone di legna e foglie di acero.

Il venire meno di questa amicizia ha sacrificato, impoverendolo, anche il nostro

linguaggio: quanti vocaboli ignoriamo oggi rispetto alla generazione dei nostri

genitori!

Del resto per descrivere un bosco è forse sufficiente una fotografia, oppure “dire c’è un bosco, che poi ognuno colorerà nella sua mente con gli alberi che più gradisce”.

Tutt’altra cosa riconoscere ognuno degli alberi dei nostri boschi, individuarne la

diversità, le specie, valorizzando la biodiversità, laddove perseguire il contrario ci

proietterebbe nel vicolo cieco di una possibile autodistruzione.

Facciamo comunità con gli alberi.

Camminiamo più spesso nei nostri boschi, impariamo a riconoscere i nostri giganti, osserviamoli e ascoltiamoli: hanno molto da raccontare e da insegnare.


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