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Immagine del redattoreClaudio Carabelli

Immagini e istanti

Aggiornamento: 20 dic 2020


Non so come definire la sensazione, anche se escluderei di pensare ad uno status di

serenità, di pace, di felicità o altro.

Anche “nostalgia” non le appartiene e neppure “saudade”, troppo struggente e legata al

pensiero per un amico o amica, una situazione, un luogo.

Forse è più corretta “friluftsliv”, parola norvegese che indica il tempo trascorso nella

natura, dalla quale si ricava energia, tempo che scorre lento e contrasta con la frenesia del vivere.

Immerso nel foliage autunnale del Parco Europa medito, camminando.

Non sono solo, altre presenze silenziose condividono questo luogo: un solitario pescatore sul pontile, l’immancabile studente con libro e notebook, il nonno che spinge la carrozzina.

Presenze reali con nessuna voglia di comunicare.

Ognuno intento a dare il proprio senso a questa loro presenza.

Io cerco con il cellulare Lyle Lovett, scoperto la prima volta leggendo Casa di foglie di Mark Z. Danielewski e mi ascolto This old porch; lo ascolto nel

senso che avvio il video a basso volume, ripongo il cellulare in tasca e cammino, oltre che nella natura, letteralmente nella musica.

Questo stare bene con te stesso ti porta inevitabilmente a pensare al passato.

Sono in quella età dove è consentito rinunciare a cambiare le cose, consapevole che oggi sia meglio modificare il tuo approccio a certe situazioni anziché pretendere appunto di cambiarle.

In questa nuova stagione da “pensionato” investo sul terzo commercio di Montaigne: i

libri.

Non nel senso che prima non leggessi, ma oggi il leggere, verbo che rifiuta l’imperativo,

identifica il senso della mia giornata. Che è un altro modo per dire che dalla stagione del

fare, si è sopraggiunti a quella della riflessione, della contemplazione.

Non progetto più il domani e mi sforzo di vivere il presente, anzi il momento.

Cammino in questo tramonto cercando di passare inosservato.

Ma non è così: imponenti platani secolari, possenti ontani, olmi e salici mi osservano

silenziosi.

Sento i loro sguardi su di me e, forse, anche loro sono in ascolto della chitarra di Lovett.



A un tratto mi fermo incredulo: uno di questi giganti è stato vinto, dopo tante battaglie,

dalle intemperie. Sfiancato dal turbinio del vento e dell’acqua ha dovuto arrendersi alla

natura matrigna.

Ma non voglio pensare ad un suo schianto violento, preferisco immaginare che abbia

ceduto lentamente, che si sia infine adagiato su un fianco, abbandonandosi sull’acqua del fiume, quell’acqua dalla quale, per anni, aveva ricevuto il proprio nutrimento.

Un ricongiungimento che ha il sapore tardivo di un “grazie”.

Completo il percorso cercando inevitabilmente nella memoria.



Rivedo quell’abito colore verde acqua, testimone di un desiderio così intenso da crearmi

sconcerto, da costringermi a rinunciare a coglierlo.

Quel tailleur avrebbe potuto avvicinarsi, camminare al mio fianco, parlarmi.

Avrei raggiunto l’apice del piacere senza alcun progressivo avvicinamento, senza

alcuna mediazione.

Non ero pronto per questa ascesa finale, repentina, fulminea.

Rinunciai, fuggii, senza dare alcuna spiegazione plausibile.

Difficile comprendere quella reazione, figuriamoci pretendere di spiegarlo ad altri.

È la nostra anima irrazionale, quella parte che completa il nostro essere.


Ma il ricordo di quell’immagine altro non è se non il rimpianto di quell’istante (Marcel Proust).


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