Sei umano ed è quindi ovvio che certe domande te le poni.
Sei cittadino, giovane, e quindi vai oltre la possibile domanda filosofica e ti chiedi:
fino a quando? Fino a quando restare?
Un’ora di cammino nell’hammada, dove nonostante tutto riconoscevi alcune forme di
vita: rari arbusti, con ancora più rare foglie, testimoniavano il corso dello uadi, la
memoria dell’acqua che una volta ogni due, tre anni, a volte molti di più, veniva
donata a quella regione e alcuni piccoli rettili o la vipera del deserto, vegetali e
animali che testimoniavano la caparbietà della vita, il diritto di esistere anche in
quelle ore in cui il sole era al punto più alto del suo sentiero in quel cielo cobalto.
Tutto attorno a te ciottoli e frammenti di rocce metalliche, bruno scure, sideriti, ricche
di minerali di ferro, erano le pietre su cui poggiare il tuo incerto cammino.
Ai margini dell’altopiano dei Tassili, era quella la strada da attraversare prima di
affrontare il grande erg.
E immancabilmente ogni venerdì, in compagnia, o più spesso da solo, mi liberavo
delle incombenze del lavoro per approdare in quel mare di sabbia.
Lo sguardo abbracciava dapprima le forme delle dune, la contaminazione cromatica
gialloblù, ma poi, memore della mia cultura universitaria, mai sopita neppure oggi,
indagavo le forze esogene che avevano pennellato quel quadro.
Mi accompagnava nella ricostruzione del passato il sibilo del vento, unico testimone
della tua presenza.
La staticità di quelle forme sinuose, di quelle onde sabbiose, veniva mitigata dal
soffio, a volte leggero a volte insistente; e ti sforzavi di pensare a come in milioni di
anni non solo il vento avesse modulato quelle onde, ma come l’abrasione continua
del singolo granello di sabbia avesse contribuito a scolpire l’hammada.
Solitudine cercata e piu volte ritrovata, testimonianza di un destino nel cosmo, tutto
sommato, non così differente da quello di quel singolo granello di sabbia.
Un nulla, in apparenza, ma quel vedere, quell’ascoltare, quel descrivere, avevano
potenziato le mie capacità di memorizzare.
Riconoscevo nomi, linee, forme, colori, suoni.
Erano gia trascorsi quasi due anni dal mio arrivo, ora era arrivato il momento di
prendere una decisione: firmare e prorogare ancora un anno quel contratto o chiudere
quell’esperienza che, solo nel tempo, si sarebbe rivelata più formativa che
professionale?
Quel silenzio, quel falso vuoto, quella non presenza, a cui appartenevi perchè tutto
era ridotto a natura, quello sguardo che ti riempiva di gioia si è decantato così in
profondità in me da rappresentare, oggi, molto più di una semplice immagine del
passato.
A quel tempo le pulsioni adolescenziali erano state definitivamente traslitterate in
emozioni e sentimenti; la vista di quegli spazi, corroborata dalle emozioni che
suscitava, si è ancorata in modo indelebile nel ricordo.
E’ trascorso molto tempo da allora, tempo definito non da ore o anni ma dalle
migliaia di pagine lette.
Ho appena terminato la lettura di un classico, un romanzo epocale di inizio
Novecento.
So con certezza che fra qualche mese non ricorderò i nomi, i luoghi, gli eventi di
quella narrazione: tra la nebbia del ricordo né conserverò qualcosa di indefinito.
Quel passo incerto nell’hammada si è rivelato essere stato la mia vita.
Il grande erg, traguardo dell’esistenza, si sta rivelando difficile da accettare.
Perché continuare a leggere se si dimentica nel breve?
Forse è arrivato quel momento in cui si deve rinunciare a progettare.
Leggo, consapevole che domani non ricorderò.
Leggo, per cercare l’emozione del momento e questo, per fortuna, si rivela sempre.
Vivo di emozioni come quelle rivelate dallo sguardo sull’erg.
Il giovane si avvicinò al vecchio fellah e gli riferì di quanto lo struggeva: “leggo, leggo molto,
ma nulla mi rimane.
Il fellah gli disse: “prendi il setaccio e portami dell’acqua dal mare”.
Il setaccio, piccolo e incrostato dalla sabbia, non sembrava potesse servire a granché ma il
giovane obbedì, si avvicinò al mare, raccolse dell’acqua e tornò dal vecchio.
Ma giunto in presenza si accorse che il setaccio, probabilmente forato, aveva perso il
contenuto.
Il giovane si scusò e tornò al mare.
Lo fece più volte e alla fine, resosi conto dell’impossibilità di quel gesto, si scusò con il
vecchio fellah.
“Non devi scusarti, hai ottenuto lo scopo: non c’è acqua nel setaccio, ma ora lo hai reso
pulito!
A te sembra che nulla di quanto hai letto rimanga nella tua memoria, questo può essere vero,
ma la tua mente non è più quella di prima.
Quando leggi dei libri – continuò il vecchio Fellah– tu sei come il setaccio ed essi sono come
l’acqua del mare.
Non importa se non riesci a trattenere nella tua memoria tutta l’acqua che essi fanno
scorrere in te, poiché i libri comunque, con le loro idee, le emozioni, i sentimenti, la
conoscenza, la verità che vi troverai tra le pagine, puliranno la tua mente e il tuo spirito, e ti
renderanno una persona migliore e rinnovata”.
Sono stato quel giovane...
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