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Immagine del redattoreClaudio Carabelli

"Svegliarsi come una rosa in ritardo... *"

L’anima si staccò dal Corpo esausto e si mise in viaggio.

Lo aveva promesso a sè stessa: doveva cercare e trovare una emozione; doveva trovare il modo di imprigionarla e portarla in dono al Corpo: era l’unico modo per potere salvargli la vita.

Quel Corpo ormai da anni, da decenni, si nutriva solo di ciò che la ragione, al di là di ogni dubbio, gli consegnava. La linfa che, rigogliosa, scorreva un tempo nelle sue vene si era arenata. Sotto la pelle diafana si intravvedevano ancora quei ruscelli ma, ormai come uadi, erano ora solo muti testimoni di ciò che un tempo vi scorreva: erano memoria. Ogni giorno quel Corpo andava definendosi sempre più il capolavoro marmoreo di uno scultore divino. Uno scultore a cui era stato concesso dagli dei di usufruire del marmo più bianco metamorfosato in Lidia.

Una emozione, linfa vitale, gli avrebbe salvata la vita. Si mise in viaggio, camminando per giorni e giorni, calpestando il fango di sentieri vulcanici, attraversando lingue infuocate nel deserto, galleggiando su enormi ninfee per raggiungere i luoghi più estremi, laddove mai era giunto il poeta. Un giorno, giunto ai margini della foresta, dopo aver indugiato su quel bordo, vi entrò circospetta. Si trovò ben presto circondata da innumerevoli piante, dal tronco biancastro e dai rami spogli. Non vi erano foglie, attorno a sè aveva solo tronchi pietrificati, scarni, a volte maestosi altre esili. Si mise in ascolto ma non percepì alcuna forma di vita.

Nessun sospiro. Nessun respiro.

Ogni passo le costava fatica, il terreno era più scivoloso della superficie di un lago ghiacciato. A fatica e non senza pericolo riuscì ad attraversarla e al tramonto mentre ne stava uscendo scorse su un ramo una piccola esile foglia. La guardò con stupore, un brivido di emozione la colse: riconobbe una foglia di betulla, intrappolata in una goccia di cristallo di ghiaccio. Si volse un’ultima volta verso la foresta e capì: erano centinaia di betulle ghiacciate. Uno spettacolo meraviglioso fu proiettato sui suoi occhi. La luce incidente del tramonto colpiva le betulle, i tronchi e i rami e questi, come centinaia di prismi, la rifrangevano, inondando il cielo di colori superbi. Fu rapita da tale bellezza, tanto da dimenticare la sacralità della propria ricerca. Se ne avvide e proprio ripensando al Corpo staccò la foglia, la portò con sè e proseguì.

Il tempo scorreva senza sosta, non si sentiva stanca e camminò ancora per molti giorni fino a raggiungere una serie di altopiani dove migliaia di anni prima possenti ciclopi avevano ridotto a terrazzamenti il fianco della montagna e intravvide estesi stagni di luce. Mano a mano che procedeva nella ascesa si trovò ad attraversare stagni d’acqua rosso cremisi, di fucsia e di incarnato di prugna, di falun e malva, adagiati al fianco di acqua blu oltremare, di fiordaliso e di denim, di carta da zucchero e di acquamarina e altri stagni rilucenti di verde muschio, di celadon, di polpa di lime e chartreuse. Estasiata, si guardò intorno alla ricerca di qualcuno che condividesse la meraviglia. Si ritrovò sola ancora una volta. Quella bellezza non ingravidava nulla: non si intravvedeva alcuna forma di vita. Raccolse i sali di ognuno di quegli stagni di luce e proseguì.

Ma il tempo ora era tiranno, fra poco avrebbe dovuto rientrare e ricongiungersi al Corpo. Sulla via del ritorno affrontò l’ultima ricerca, l’ultima sfida. Calpestò sentieri appena tracciati dalla lava, e s’inoltrò tra fetidi umori della Terra, miasmi sulfurei, fino a raggiungere il cratere del vulcano. Vi giunse, esausta, alla sera, quando ormai la luce dell’ultimo giorno lo stava abbandonando. Percepì un rombo profondo che saliva dal ventre del vulcano, un rumore sempre più fragoroso, una serie di boati che generavano uno spettacolo terrificante. Fontane di lava alte centinaia di metri si aprirono al suo sguardo, lapilli incandescenti e cenere si addensavano in nubi plumbee e gravide di fuoco e lava, fluida lava che scorreva ogni dove. Inutile cercare la vita in un simile luogo, ebbe solo tempo per rubare al vulcano un pò di fuoco e fuggì.

Era consapevole di avere fallito nella missione.

Tornò.

Depose di fronte al Corpo dell’acqua, i sali e il fuoco. E la foglia. Quel piccolo, insignificante, crogiolo d’alchimista avrebbe potuto fare il miracolo. Quel miracolo che da milioni di anni, ogni pianta era in grado di riprodurre. Guardò con speranza la foglia, ebbe fiducia in lei e ad un tratto la magia si avverò: sulla sua lamina scorse piccoli, microscopici cristalli biancastri. Raccolse lo zucchero e lo diede al Corpo. Vi fu un sussulto delle membra, un sussulto appena percepibile. Ma nulla più. La vita del Corpo era ormai un soffio e dentro a quel soffio l’anima credette di udire una frase.

“Chi sei?”

L’anima si rese conto che al Corpo necessitava ormai solo una grazia, un favore divino. Rispose.

Sono Channah. Channah.

Qualcosa di indefinito sembrò mutare il marmo, qualcosa di impercettibile sembrò rifluire nelle vene.

Un nome.

Una emozione.


Tesi


Il mondo greco era concepito come chiuso e ordinato, riflesso della ragione e disposto da un principio divino.

Il dogma cristiano lo ha ereditato e plagiato ai propri fini.

In un modo o nell’altro il senso è sempre stato chiaro: preservare autorità e potere.

Pensiamo alla parola desiderio: “desideriamo una donna o un oggetto”.

Etimologicamente “desiderare” deriva dal latino de sidere, che ci suggerisce la provenienza dalla radice “stella”.

Quando diciamo “è un disastro”, non dobbiamo dimenticare che il suo significato originario è che le stelle o i pianeti non sono più condotti armonicamente.

E infatti ancora nel Seicento, l’apparizione di una cometa, di un corpo celeste disallineato, che perturbava l’ordine del cielo, la sua incorruttibilità e perfezione, veniva interpretata come un segno di sventura.

Lo strumento attraverso il quale, per millenni, l’autorità tende a preservare questo status quo non può che essere la ragione.

L’autorità deve convincere l’uomo che essere razionale è il senso del suo agire personale.

Beninteso, se voglio indagare la natura non posso che essere razionale, ma lo studio della natura umana e della sua presenza nella società presuppone altro!

Platone cosa scriveva nel Fedro?

Il cavallo bianco, virtuoso, tende al “pane degli angeli” e quello nero, che simboleggia le passioni, scarta la biga verso i piaceri terreni.

L’auriga, la razionalità, deve governare le passioni.

E lo fa attraverso la regola, la giurisdizione, la credenza religiosa (la morale cristiana).

Ma perché? Per chi?

Per il mio bene o per garantire l’autorità?

Quindi tutto ciò che nella natura umana tende a contrapporsi alla razionalità va contrastato perché, al limite, potrebbe sovvertire comunità e società.

Ma siamo sicuri che per essere virtuoso devo seguire questo dogma?

"La ragione deve essere schiava delle passioni, le deve servire e obbedire ad esse" (D. Hume)


Antitesi


La ragione è la concretezza, è la matematica che interviene a misurare lo spazio tra le passioni e le persone o gli oggetti su cui il loro effetto va a impattare. Anche uno spazio minimo attiva un campanello d'allarme, è il segnale di STOP davanti al limite di una possibile rottura dell'equilibrio. Se si può andare oltre, lo dice la ragione. La razionalità deve dunque governare le passioni, ma per chi? Non necessariamente e solo per il bene individuale.

“L'uomo è un animale sociale" scriveva Aristotele e Darwin definì "simpatia" la capacità di entrare in relazione con altri esseri viventi. Governare inoltre deriva dal verbo greco kubernáo: reggere il timone. La ragione quindi regge il timone, mantiene la rotta della vita umana quando viene travolta dalla tempesta delle passioni.


Sintesi


Tra due corpi celesti esiste un punto di equilibrio dove le rispettive forze di gravità si annullano.

Contrariamente a quanto si possa pensare questo punto di equilibrio non coincide con il punto medio della loro distanza ma, essendo proporzionale alla loro forza di gravità, sarà più prossimo al corpo con massa minore.

Definire questo spazio minimo, questo campo di esistenza, dove le passioni possano muoversi libere, senza subire la gravità della ragione o paradossalmente senza che la ragione avverta di esserne schiava, non è semplice e soprattutto non è dato una volta per sempre.

Considerare la ragione alla stregua di passione moderata o mite, come scrive Hume, si rivela essere solo un artificio filosofico, che non aiuta certo a capire come debba procedere la volontà.

Però per non rimanere impaludati in una questione che non è certo solo filosofica, potremmo immaginare che la passione debba avere un ruolo non secondario nel giovane, pena il non scoprire e vivere fino in fondo la propria natura umana e oltre una certa età, non negarla, ma relegarla in uno spazio chiuso, una bolla virtuale, dove i nostri avatar possano, condivise semplici regole linguistiche, esprimerla e trarne emozioni che sono il sale della vita.



Bibliografia


Lunga vita di Marianna Ucrìa Dacia Maraini 1990 Rizzoli


*Svegliarsi come una rosa in ritardo, dopo un sonno durato decenni.



Opere filosofiche . Vol. 1: Trattato sulla natura umana David Hume 2008 Edizione Laterza



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